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Studiare per scrivere: conversazione con Enrico Losso

Quando percorro una storia con piacere, mi capita di domandarmi quale e come sia stato il processo che l’ha condotta fino a me. Dietro ogni personaggio riuscito, ogni trama efficace e ogni ambientazione vincente, c’è un lavoro talvolta interessante tanto quanto l’opera in sé, una vera e propria storia nella storia. Da qualche settimana è in libreria Dove si nascondono le rondini, scritto da Enrico Losso e pubblicato da Garzanti. Racconta l’incontro tra un ragazzino di nome Lamberto e Irene, una brigatista che si nasconde in una vecchia villa di campagna. La sua apparente semplicità lascia intravedere un lavoro che mi ha incuriosito a vari livelli, facendomi venire la voglia di parlarne con l’autore. Grazie a Enrico Losso, che oltre a essere uno scrittore di talento è anche un amico, inauguro così una serie di conversazioni dedicate alla scrittura, un viaggio alla scoperta di ciò che si trova dietro le pagine che leggiamo che spero suggerisca sia risposte sia domande a chi legge e a chi scrive.

Cominciamo dall’inizio, cioè da quando questa storia ti è venuta in mente. Nella tua testa, si è affacciato prima Lamberto o prima Irene?

Entrambi, contemporaneamente. L’idea è nata quando ho visto Un mondo perfetto, un film diretto da Clint Eastwod nel ’93. C’è un evaso, interpretato da Kevin Costner, che rapisce ragazzino e durante l’evasione i due diventano amici. Ho riflettuto su questa idea di amicizia particolare che nasce fra due persone il più distante possibile l’una dall’altra per età, formazione e ideali. Volevo vedere cosa può nascere quando si è costretti a conoscersi, perciò il fulcro del mio romanzo è nato là. Per questo ti dico che Lamberto e Irene sono venuti contemporaneamente. Poi gli Anni di Piombo, il brigatismo e l’estremismo mi hanno sempre affascinato. Leggevo romanzi, saggi storici e articoli sull’argomento a prescindere, già prima di scrivere il romanzo, perciò mi è venuto in mente un estremista di quel periodo. All’inizio non sapevo nemmeno se fosse un estremista rosso o nero, uomo o donna. Non l’avevo focalizzato e non sapevo nemmeno se avrebbe incontrato una ragazzina o un ragazzino.

Scegliere l’uno o l’altro fa una gran bella differenza.

Sì, ma alla fine ho sentito che avrebbero dovuto essere un ragazzino e una donna. Poi tra l’estremismo nero o rosso ho deciso per le Brigate Rosse perché il loro idealismo, seppur portato all’estremo, era quello di difendere il proletariato contro l’oppressione del capitalismo e dei potenti. L’idea che il ragazzino fosse sfigato e vessato dai bulli calzava a pennello con gli inviti della brigatista a essere coraggiosi e a imporre le proprie idee. I primi bagliori per la storia, quindi, sono stati così. Poi tutto è venuto di conseguenza.

Fra le tue scelte ce n’è un’altra che mi ha interessato. Hai detto di aver sempre letto testi su questo argomento storico, quindi conosci benissimo il terrorismo e gli Anni di Piombo, che hanno il loro apice a metà degli anni Settanta. Le narrazioni più famose di quel periodo infatti si concentrano lì, tra il ’72 e il ’78. Tu però scegli di ambientare il romanzo nel 1983. Perché?

In quel periodo le BR erano nella loro parabola discendente, non stavano più attraversando il loro momento d’oro e anzi da lì a poco sarebbero state sgominate. Mi interessava questa fase perché volevo pensare a un brigatista che avesse ancora ben forti i propri ideali ma che fosse alla fine del percorso, anche perché volevo isolare e dare risalto all’amicizia fra i due protagonisti, visto che questo è un romanzo di formazione e non un romanzo storico in cui dare giudizi sulle BR, i loro ideali e le loro storture. Se avessi ambientato la storia nel periodo precedente, quando le BR erano al culmine, la loro ideologia sarebbe stata più ingombrante rispetto alla storia di amicizia fra Lamberto e Irene. Per questo ho spostato tutto più avanti, in un momento in cui c’erano ancora pochi brigatisti ben convinti ma con un idealismo in discesa. Sempre per mettere in primo piano l’amicizia, ho scelto anche di ambientare la vicenda in un piccolo paesino veneto distante dalle grosse città come Milano, Torino, Genova o Napoli dove le BR avevano agito principalmente.

Penso che proprio queste due scelte, di ambientare la vicenda negli anni Ottanta in Veneto, ti abbiano permesso di mantenere la Storia con la esse maiuscola sullo sfondo. Spesso nei romanzi storici o ambientati nel passato, la Storia sovrasta la storia, l’ambientazione mette cioè in ombra la trama e i suoi personaggi. Tu invece riesci a sfumare la Storia ma a renderla al tempo stesso nitida e percepibile. È precisa, né lontana né troppo presente. Suppongo ciò abbia richiesto un grande lavoro di “riduzione”. È così? Qual è stato il tuo procedimento, hai aggiunto e poi tolto?

Sono contento che tu l’abbia colto perché è esattamente quello che volevo fare, quindi mi rincuora sapere di essere riuscito nell’intento. Volevo evitare che la storia delle BR prendesse il sopravvento perché non mi interessava scrivere un romanzo storico. Volevo sfumare, lavorare con il cesello, la lima e la carta vetrata per avere un sfondo che ci fosse ma che non risaltasse. Per questo ho scelto di inserire un episodio realmente accaduto come la gambizzazione del giuslavorista Gino Giugni, che nel romanzo chiamo Giorgio Goffredi, che fu un evento storico ma non fra i più eclatanti. Se avessi parlato di Aldo Moro, James Lee Dozier o del rapimento di Ciro Cirillo sarebbe stato un fatto troppo importante che avrebbe distolto l’attenzione dalla storia di amicizia. Quindi ho fatto proprio questo lavoro per sfumare, ma al tempo stesso ho studiato e mi sono documentato il più possibile. Ho riletto saggi, documenti, testimonianze e memoriali di brigatisti come Peci, Moretti e Adriana Faranda. Volevo che la Storia rimanesse sullo sfondo ma al tempo stesso, e spero di esserci riuscito, volevo comunque suscitare curiosità in chi non è nato in quegli anni, ma dopo, e vorrebbe saperne qualcosa in più. Dare stimoli per domande tipo: Cos’è successo in quegli anni? Chi erano le Brigate Rosse? Che succedeva nel 1983? C’erano ancora le BR? Hanno davvero fatto un attentato a un giuslavorista? Desideravo lasciare mano libera al lettore che vuole approfondire e che non trova le risposte nel mio romanzo ma altrove.

Secondo me questo modo di lavorare si vede molto nel personaggio di Irene. È molto facile subire il suo fascino e soprattutto quello della sua voce, che è molto connotata. Lei parla infatti una lingua specifica che però cambia nel corso del romanzo, grazie all’incontro con Lamberto, quasi spogliandosi dei tratti caratteristici e spesso altisonanti che appartenevano al linguaggio delle BR. Nella sua voce, quindi, ho trovato proprio questa compresenza tra la sua storia intima e quella più esteriore, legata alle BR e alla Storia. Una scelta non casuale è anche quella del suo accento romano, che aiuta a rendere questa voce ancora più nitida. Come sei arrivato a questo effetto?

Essendo la storia ambientata in un paesino veneto, volevo che la voce della brigatista avesse un che di esotico per le orecchie di Lamberto, perciò ho scelto l’accento romano. Oltretutto Lamberto è un tredicenne degli anni Ottanta, quindi senza cellulare, internet e tutti quei mezzi di comunicazione che ha un tredicenne di oggi per vedere e conoscere altre realtà. Anche i viaggi all’epoca erano più rari, perciò Lamberto risulta più ingenuotto e meno scafato rispetto a un suo coetaneo dei giorni nostri. L’ambientazione, quindi, ha influenzato la caratterizzazione dei personaggi. Anche Irene, che ha trentuno anni, nell’83 era già vista come una donna fatta, dato che all’epoca si avevano figli già a ventidue o ventitré anni. Oggi è diverso, una trentenne può essere ancora una ragazza. Come ti dicevo, ho letto delle testimonianze di brigatiste e brigatisti. Alcuni erano molto giovani, studenti o operai talvolta non molto istruiti. Erano indottrinati e venivano anche imbeccati su cosa dire, per questo sembrava che parlassero spesso per stereotipi o comunque con lo stesso linguaggio dei libri che leggevano. Irene inizialmente parla così. È una brigatista dura e pura, anche se con qualche incrinatura. Ha un vissuto che macina dentro di lei, è come una roccia con alcune fessure che, grazie all’incontro con Lamberto, diventano crepe più grandi. Perciò viene meno anche quel linguaggio stereotipato, perché lei stessa si domanda chi sia veramente: l’Irene brigatista o l’Irene donna?

Queste tue scelte hanno caratterizzato la storia e i personaggi, dandoti libertà di movimento ma, credo, imponendoti anche dei limiti. D’altronde, il tuo è un romanzo solo apparentemente semplice, sia per stile sia per trama, eppure proprio per ottenere un simile effetto di semplicità si passa spesso attraverso un lavoro molto difficile. In questo senso c’è stato qualcosa che ti ha dato particolarmente filo da torcere?

La cosa che mi ha dato più filo da torcere a livello tecnico è stato trovare un equilibrio tra una trama troppo ricca di avvenimenti e una trama piatta. Un romanzo incentrato soltanto su un dialogo tra Lamberto e Irene avrebbe stufato, quindi la difficoltà maggiore nella genesi del romanzo è stata ideare una trama che tenesse viva la curiosità del lettore dalla prima all’ultima pagina e che al tempo stesso non rubasse troppo l’attenzione rispetto al rapporto tra i due personaggi. Trovare il giusto equilibrio tra le due cose per me è stata la cosa più difficile, ancora più del lavoro sullo sfondo storico di cui abbiamo parlato prima.

È un po’ come quando proviamo a viaggiare leggeri e magari, per esagerare, corriamo il rischio di rimanere senza pantaloni o senza un maglione. In effetti, leggendo il romanzo, ho avuto la sensazione che non ci fosse né troppo né troppo poco. La trama è agile ma dentro ci sono una crescita, una formazione reciproca, un’ambientazione storica e materiale sufficiente per una storia da cinquecento pagine. Invece qui ne abbiamo duecentoquaranta, quindi immagino la fatica per ottenere questo equilibrio di cui parli. Allo stesso tempo, immagino anche delle soddisfazioni, momenti in cui hai trovato una soluzione o ti è venuta in mente un’opzione che ha svoltato la scrittura, facendoti gioire o tirare un sospiro di sollievo. Ne hai qualcuna da condividere?

Una grande l’ho avuta quando ho trovato l’idea per una delle scene finali, che non posso rivelare per non dare anticipazioni. Quella soluzione mi ha fatto sentire come quando sei in montagna, cammini e poi arrivi al rifugio ed esclami: Ah, che soddisfazione! Quello è stato proprio un momento fondamentale in cui ho trovato la quadra di tutta l’amicizia tra i due personaggi. Un’altra soluzione che mi ha fatto tirare un gran sospiro di sollievo è stata trovare l’esatta collazione per due personaggi minori come Ottorino e il professor Fantinel, ma anche qui non posso anticipare niente.

Visto che parliamo di tentativi e di soluzioni, ti chiederei allora un commento sulla tua esperienza di studio con la scrittura. C’è ancora chi storce il naso di fronte all’idea che per scrivere si debba studiare, ma tu per questo romanzo ti sei documentato e hai intrapreso un percorso in cui hai affrontato e risolto tutti i problemi che si incontrano quando ci si mette a scrivere una storia. A che punto ti senti, in questo senso? Sei uno scrittore che continua a studiare, magari anche sulle pagine degli altri autori?

Quello che dici è vero. Anzitutto come autore non mi sento neanche lontanamente arrivato, devo imparare ancora molto. Dal punto di vista della scrittura sento di aver raggiunto una voce che sento mia e su questo ho lavorato parecchio. All’inizio tendevo sempre all’iperbole, alla frase da citazione, risultando a volte stucchevole. Quindi durante gli anni un lavoro l’ho compiuto sulla scrittura e sono contento del risultato a cui sono arrivato. So che quella è la mia voce, insomma. Io scrivo così e può piacere o meno ma è il mio timbro. Per quanto riguarda la struttura e l’intelaiatura del romanzo, sento che devo ancora imparare molto. Lì mi ha aiutato molto la scuola di scrittura Palomar. Non è che non abbia idee, la difficoltà per me come scrittore sta più che altro nell’allestire una trama che stia in piedi. Sento autori dire: ho iniziato a scrivere e poi il romanzo è venuto da sé. Io non ce la farei mai! Io ho proprio bisogno dell’intelaiatura e su questo sento di poter ancora imparare dagli altri professionisti che lavorano in questo campo. Studio anche leggendo i romanzi per diletto, studio gli escamotage utilizzati dagli altri autori per tenere in piedi la storia, perché c’è sempre da imparare. Poi ovviamente ci sono varie mode e col tempo i libri e i gusti dei lettori evolvono, però questo lavoro di costruire le fondamenta rimane duro.

C’è un libro, che sia un romanzo, un manuale o anche un testo persino lontano dalla tua scrittura, dove hai trovato delle soluzioni di scrittura che ti hanno aiutato (o magari messo nei guai!) e che consiglieresti? Un’autrice o un autore che possono fornire risposte, oppure domande altrettanto preziose, a chi scrive e si interroga sulla scrittura?

Per quanto riguarda la voce, una scoperta degli ultimi anni è stato Cormac McCarthy. Leggendo certi suoi passi mi dicevo: cavolo, mi piacerebbe saper scrivere così! Per la costruzione della trama, un romanzo che mi è piaciuto moltissimo è Venuto al mondo di Margaret Mazzantini. Lì andavo avanti provando uno stupore dietro l’altro. Comunque io leggo di tutto, sono un lettore onnivoro, cerco le soluzioni e il bello nei vari autori che leggo. Ho apprezzato moltissimo anche i romanzi di Giorgio Fontana. Tanto di cappello per Prima di noi.

Concordo. È un romanzo teoricamente complicatissimo da tenere insieme, un mattone durante il quale pensavo: guarda dove si è andato a cacciare! Poi però ne esce sempre egregiamente. 

E, se ci pensi, in Prima di noi non succede niente di eclatante, eppure lo leggi dall’inizio alla fine senza riuscire a staccarti.

Per staccarti invece da questa intervista, concludo con la domanda di rito. Stai già lavorando a una nuova storia? Puoi anticipare qualcosa?

È ancora in fieri. Ho in mente la storia ma devo costruire l’impalcatura di cui parlavamo prima. C’è una bella scalata da fare, prima di arrivare in cima.

Pensi che in questa scalata potrai farti aiutare dai personaggi? Ne hai già alcuni delineati?

Sì, i personaggi ci sono. Spero che mi aiutino! Voglio trovare, anche qui, un equilibrio per far risaltare queste due figure principali e un’altra figura che non c’è nel presente, perché non più in vita al momento della narrazione. Devo trovare una trama che permetta a questi personaggi di dare il meglio di sé e che li esalti.

In bocca al lupo, allora.

Crepi!

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Enrico Losso è nato a Vittorio Veneto nel 1974 e abita a Ferrara. Lavora come impiegato amministrativo all’Università di Bologna, dunque fa parte della grande famiglia dei pendolari, dedita all’osservazione della gente nei vagoni dei treni. Ama il pastello blu cobalto quando deve disegnare per sua figlia, il numero 27 e i film diqualsiasi genere, purché lo facciano sognare. Legge molto, ogni tanto sottolinea. Appassionato di storia, è affascinato dagli errori che l’uomo, ciclicamente, continua a commettere. Il suo sogno di evasione è una camminata, lenta, su un sentiero di montagna. Dove si nascondono le rondini è il suo romanzo d’esordio.

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