Nel 2018, da cui ormai sembra passata un’eternità, lessi due testi che diedero uno scossone enorme al mio rapporto con la tecnologia e in particolare con i social network: Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social di Jaron Lanier e Riconquista il tuo tempo di Andrea Giuliodori. Ricordo che stavo attraversando un periodo di riorganizzazione mentale e professionale e che sentivo il bisogno di cambiare marcia. Questi due libri, seppur molto diversi, mi fornirono domande e risposte simili, che tra l’altro si intrecciavano bene con il mio interessamento al minimalismo. Spinto dall’entusiasmo, cominciai a ridisegnare le mie abitudini e a riconoscere la dipendenza da smartphone e social network, dai quali mi allontanai con un distacco netto.
Ammetto di lasciarmi trasportare spesso dall’onda di nuove scoperte, che in molti di casi si rivelano poco più che passioni passeggere. Disattivando il mio profilo Facebook, cancellando il mio profilo Instagram per più di due anni e cercando di usare in modo più intenzionale il mio cellulare, però, ho sentito di essere andato incontro a un’esigenza, di aver finalmente prestato ascolto a una richiesta che fino a quel momento non avevo nemmeno sentito.
Il minimalismo, in generale, ci invita a riflettere sulle intenzioni dietro i nostri impulsi, a interrogarci sul perché e a valutare abitudini, scelte, decisioni e acquisti in base al valore. Ai gesti automatici oppone riflessione e consapevolezza, due cose che smartphone e social network tengono il più possibile a freno. Applicare il minimalismo alle nostre abitudini digitali, quindi, significa porci anzitutto delle domande come: Perché ho preso il cellulare in mano? Perché sto scrollando Instagram da mezz’ora?
Questi strumenti, perché di strumenti parliamo, hanno preso il sopravvento su noi che li utilizziamo, modificando fortemente i nostri comportamenti individuali e sociali. Prenderne coscienza è importante per valutare il valore che essi aggiungono effettivamente alla nostra esperienza quotidiana. Secondo il report The State of Mobile in 2022, in media trascorriamo 4,8 ore al giorno con lo smartphone in mano, cioè un terzo della nostra giornata da svegliə. Ormai è noto, e ce ne rendiamo conto da noi, quanto questo utilizzo massiccio, specie se associato ai social network, abbia influenze negative sulla nostra attenzione, sulla produttività, sull’umore, dunque sulla nostra salute fisica e mentale.
Oltre alla presa di coscienza, ci sono azioni e rimedi più o meno drastici. Io, come detto, diedi un taglio coi social network, prendendomi del tempo per ragionare sul mio rapporto con essi e su come utilizzarli in un modo che aggiungesse valore per me e per i miei contatti, anziché toglierne. Poiché non esistono mai approdi sicuri, ho riattivato da un anno i miei profili, ma questa mia riflessione prosegue, tra nuove scoperte e ricadute. Ho anche valutato di passare a un dumbphone, come racconta Aziz Ansari nel suo ultimo spettacolo su Netflix, ma per ora resta una possibilità lontana (seppur affascinante).
Nel corso degli ultimi quattro anni, durante i quali è successo di tutto, sempre più persone hanno messo in discussione il proprio rapporto con le nuove tecnologie e i nuovi media. Parlare di digital detox è diventato comune, persino di moda. Prodotti come The Social Dilemma hanno provato a raccontare a un pubblico più ampio ciò che per molto tempo è stata una riflessione di nicchia (nonostante la portata globale del caso Cambridge Analytica). Tuttavia, è stato con la pandemia che la maggior parte di noi si è resa conto concretamente di come la nostra vita sia condizionata dagli strumenti che utilizziamo, siano essi i nostri cellulari, i nostri profili social o la nostra posta elettronica. Nel torrente di parole ed espressioni più o meno nuove con cui la pandemia di Covid-19 ci ha investito, ce ne sono alcune a cui ho prestato particolare attenzione:
- infodemia: circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili (Treccani);
- infomania: bisogno compulsivo di accumulare notizie e informazioni attraverso il computer o il cellulare (Garzanti Linguistica);
- doomscrolling: l’azione di scorrere compulsivamente le pagine di un sito, la bacheca di un social network e sim., alla ricerca di cattive notizie (Accademia della Crusca);
- burnout: mancanza di energia o entusiasmo causata dall’eccessivo lavoro (Cambridge Dictionary).
Delle prime tre, che continuano a essere fortemente attuali sia per il protrarsi dell’emergenza sanitaria sia per quanto sta accadendo in Ucraina, ho preso coscienza all’inizio della pandemia grazie a un altro libro, Smetti di leggere notizie di Rolf Dobelli. Dopo il rifiuto estremo dei social proposto da Lanier e l’invito a una gestione più consapevole del tempo di Giuliodori, il testo di Dobelli mi è servito ad aggiustare nuovamente il tiro, o comunque a prendere consapevolezza di abitudini malsane portate avanti in automatico, senza alcun beneficio. Questo mio personale percorso di lettura è passato (e culminato) anche per Minimalismo digitale di Cal Newport, vero e proprio testo di riferimento sull’argomento.
Alle domande da porci, quindi, possiamo aggiungerne altre come: Ho davvero bisogno di leggere tutti gli aggiornamenti sulla guerra prima ancora di alzarmi dal letto? Le fonti con cui mi informo mi aiutano realmente ad approfondire e a comprendere ciò che mi interessa, o fanno leva sulla mia angoscia, continuando a nutrirla? È proprio necessario rispondere a questa e-mail di lavoro anche se è domenica o se sto facendo la spesa? Ci sarebbe un’alternativa rispetto a quello che sto facendo ora con il cellulare in mano?
Gli smartphone stessi adesso ci segnalano con avvisi abbastanza timidi il tempo di utilizzo. Disponiamo di statistiche, blocchi, timer, modalità non disturbare, full-immersion, ma sappiamo bene quanto sia difficile resistere, oppure quanto sia facile cedere. Del resto è una lotta impari, noi contro un’industria intera che lavora remando contro questo nostro bisogno di staccarci dallo schermo, o comunque di poggiarci lo sguardo soltanto lo stretto necessario. Perché non bisogna dimenticare, né negare, quanto questi strumenti siano utili e preziosi, se usati con intenzionalità e moderazione. I social media ci forniscono grandiose occasioni di confronto e di comunicazione, permettendoci di trarre significativi benefici per la nostra crescita personale e professionale. Tutto questo non va demonizzato o minimizzato, ma non è comunque sufficiente per consegnare le chiavi della nostra attenzione e il nostro potere decisionale a dei mattoncini da duecento grammi.
Proprio perché ne cerco il più possibile, so bene quanto non esistano ricette perfette per il minimalismo digitale. Possiamo cambiare la disposizione delle app, cancellare quelle dei social network, impostare avvisi e timer, comprare un flip phone, disattivare i nostri account, sostituire i reel con le app di meditazione. Per un periodo va tutto bene, tempo di utilizzo giornaliero crollato, poi però spunta una nuova variante, comincia un’invasione militare o semplicemente ci sentiamo più fragili ed ecco che torniamo a cercare conforto nell’apparentemente innocuo (sovra)utilizzo della tecnologia. Proprio per questo va tenuto a mente che il minimalismo è un percorso, non di una meta da raggiungere. Implica un cambio di sguardo, una presa di coscienza e possibilmente azioni, ma non si arriva da nessuna parte: ci pone di continuo delle domande, cercando risposte che vadano al di là di quelle date dagli impulsi delle nostre abitudini (digitali e non). Riconoscere e ascoltare un malessere può spingerci ad affrontarlo e a fare qualcosa per intervenire, così come sentire parlare di burnout magari ci fa (ri)valutare la nostra idea di lavoro, mostrandoci altre possibilità (come la “settimana corta”) e spingendoci a studiarle.
Chiaramente non tuttə possono permettersi cambiamenti importanti quando si tratta di lavoro, studio e purtroppo anche salute. Anche quella delle ventiquattro ore giornaliere che sono le stesse per tuttə è una sciocchezza, perché ogni vita ha giornate completamente differenti. Tuttə noi, però, abbiamo il diritto di interrogarci e di scegliere consapevolmente sul modo in cui impiegare il nostro tempo a disposizione, offrendoci varie opzioni oltre a quella rappresentata da uno schermo che ha come unico scopo quello di farci dimenticare tutte le altre. Resistere deriva dal latino resistĕre, composto da re– e da sistĕre, cioè «fermare, fermarsi». Di fronte all’irresistibile, quindi, di fatto dobbiamo solo ricordarci che fa sempre bene prendersi una pausa e che anche solo fermandoci possiamo farci del bene.