Negli ultimi mesi, mi sono reso conto che il mio rapporto con Instagram si stava inceppando. Soprattutto durante l’estate, mi sono ritrovato a installare e disinstallare l’applicazione di Instagram quotidianamente, anche più volte al giorno. Infatti, malgrado gli accorgimenti, l’invito alla consapevolezza e al minimalismo digitale, trascorrevo (e trascorro) troppo tempo davanti allo schermo, risucchiato principalmente dai reel. Così ad agosto, prima di andare in vacanza, ho disattivato il profilo, prendendomi una pausa fino a settembre.
Il social detox in sé è andato bene. Zero FOMO e soprattutto vacanze in tranquillità. Ma stavolta volevo prendermi una pausa di riflessione dai social network nel vero senso della parola, cioè per riflettere su quanto per me abbia senso continuare a usarli. Dopo aver eliminato il mio profilo Instagram per due anni, sono tornato all’inizio del 2021 per capire se e come Instagram potesse rivelarsi un alleato per la mia scrittura e, soprattutto, per il mio romanzo in uscita (pubblicato poi a dicembre). In più, mi interessava conoscere e interagire con persone che condividono i miei interessi e mettermi così nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo. Perché, allora, dopo un anno e mezzo sono tornato al punto di partenza, cioè al desiderio di cancellare nuovamente i miei profili?
Sono abituato a farmi tante domande, soprattutto quando qualcosa contribuisce a frustrarmi o a generare insoddisfazione. Così mi sono chiesto in particolare: Cosa mi piace di Instagram? Cosa non mi piace? Essere su Instagram impreziosisce o aiuta significativamente la mia carriera di scrittore? Ho affrontato l’argomento nella mia newsletter e ho ricevuto diversi commenti e testimonianze che hanno alimentato la riflessione, perciò ho esteso la domande anche a chi mi segue su Instagram. I messaggi che mi sono arrivati mi hanno dato molti spunti, facendomi scoprire che in tantə condividono un malessere simile al mio e che le risposte a questo malessere sono varie. Instagram piace quando ci fa attingere a informazione di qualità, a letture interessanti e a spunti che possono aiutare a migliorarci. Cosa non piace? I reel, i balletti, il bisogno di attenzione e quella che la mia amica Silvia ha chiamato «patinatura», intendendo (suppongo) il bisogno di proporci principalmente o esclusivamente al nostro “meglio”, sottoponendoci a una non indifferente ansia da prestazione.
Quando l’obiettivo dichiarato è quello di un uso “professionale”, poi, i problemi spesso mettono radici e intaccano la nostra sicurezza. Antonella, che coi social ci lavora, mi ha confessato che ciò ha influito sulla sua salute mentale. Silvia, invece, mi ha raccontato di aver vissuto a lungo come una colpa il fatto di non usare i social come professionista, paragonandosi a colleghi che invece li sfruttavano con successo. Poi però per fortuna dice di essersi scrollata di dosso questa idea, ottenendo comunque i risultati che desiderava («Non siamo tutti animali da social, ma abbiamo anche dei difetti» ha concluso).
Sa da un lato, dunque, Instagram è una preziosa occasione di crescita e confronto, dall’altro è una gigantesca fonte di insicurezze e di distrazione. Senz’altro condivido ciò che mi ha scritto Marta, quando ha paragonato Instagram a un supermercato («Alla cassa ci arrivi con quello che vuoi tu! Quindi io dico: non cancelliamo i profili, ma smettiamo di seguire chi non dà valore aggiunto alla nostra giornata»). Eppure bisogna tenere conto anche della fatica che si compie anche nell’aggiustare il tiro, oltre che nel sentirsi costantemente inadeguatə, alle prese con un gioco dove sembra che tuttə, tranne noi, conoscano le regole.
A un certo punto, credo si debbano mettere sulla bilancia i vantaggi e gli svantaggi. Come dicevo, nel mio caso ciò ha a che vedere in particolare con la scrittura. Essere presente (anche se in modo intermittente) su Instagram mi ha permesso di essere rintracciabile, di mostrare ai miei contatti ciò che stavo facendo, scrivendo e pubblicando. Ho potuto condividere la mia esperienza di pubblicazione e di promozione, ricevendo dimostrazioni di attenzione e anche di affetto che, è innegabile, mi hanno fatto piacere, mostrandomi concretamente l’effetto che il mio lavoro può avere su chi decide di leggermi. L’altro lato della medaglia, o se vogliamo la parte sommersa dell’iceberg, è la mia difficoltà nel trovare un linguaggio che mi rispecchi e che non sia necessariamente instagrammese, oltre al martellante richiamo a dover condividere, dover mostrare, doverci essere che indebolisce gioco forza la mia spontaneità. Così torna la domanda: è davvero necessario e, soprattutto, ne vale la pena?
Claudia mi ha scritto che si può vivere bene senza social, anche se non possiamo far finta che non esistono. Poi ha aggiunto: «Comunque penso che si resterebbe esclusi da qualcosa. È una scelta». La paura dell’esclusione, in effetti, c’è, perché essere fuori dal feed spesso e volentieri equivale a sparire. Sì, ma dalla vista di chi? Perché anche questo è importante considerarlo. Nel book marketing si insiste parecchio sull’identificazione di un lettore ideale, nostro potenziale pubblico e acquirente (che poi funziona come la buyer persona). Chi vogliamo che ci legga è su Instagram? Su Facebook? Su TikTok? Ed è soltanto lì o è raggiungibile anche in altri luoghi online e offline? Perché, oltre ai social, i libri popolano e animano giornali, riviste, festival, librerie, biblioteche, scuole, gruppi di lettura.
Naturalmente non si può essere ovunque, anche perché lo si farebbe male. Inoltre così si disperderebbe una marea di energia che invece potrebbe (dovrebbe!) essere dedicata a in modo prioritario alla scrittura. In questo senso, sottoscrivo ciò che mi ha scritto Tommaso, per il quale i social sono sì «indispensabili», anche se «non bisogna finire in una spirale in cui si utilizza il social in maniera ossessiva togliendo energia a quello che è realmente il nostro lavoro, ovvero la creatività per raccontare storie sui libri».
Cercando di arrivare a qualcosa che somigli a una conclusione, mi dico che ora come ora dal punto di vista professionale la mia presenza su Instagram, anche dormiente, mi offre vantaggi in termini di visibilità e rintracciabilità. In buona sostanza, in quanto scrittore ahimè non posso permettermi di non avere profili social, a meno che non decida di investire tutte le energie nella promozione offline (che però è un altro sport, dove timidezza e introversione non sono contemplati). Riguardo alla distrazione, alla frustrazione e allo sconforto che deriva dal sentirmi obbligato a usare Instagram (e di farlo in modo per me non spontaneo), l’unica possibilità che ho è quella di limitare i danni (tenendomi possibilmente alla larga dai reel, se voglio continuare a scrivere). Al momento, quindi, continuerò a esserci, anche se per me resta difficile considerare l’attività sui social un piacere, anziché un dovere. Forse un giorno le cose cambieranno e diventerà piacevole, o magari smetterò di sentirmi obbligato perché avrò trovato altri modi di raccontare me e il mio lavoro.