Tra le domande che ci si pone quando si vuole raccontare una storia ce n’è una particolarmente preziosa: dove? A seconda della risposta che diamo, possiamo imprimere al racconto una direzione piuttosto che un’altra, sfidandoci a costruire attorno ai nostri personaggi e alla loro vicenda una scenografia potente tanto quanto i personaggi stessi. In Mind the gap. Distanze londinesi (Aporema, 2021), Luisa Multinu racconta la storia di Ida, che si trasferisce a Londra senza soldi ma con tanta voglia di farsi accogliere dalla città che ama («lo scenario ideale per chi, come lei, è in cerca di una risposta o di una meta»). L’esperienza di Ida a Londra sarà fatta di attrazione e repulsione, illusione e cruda disillusione e traccerà una mappa precisa della città, che ospita e al tempo stesso prescinde dalla sua storia.
Perché Londra ti attira, ma non sa trattenerti; si offre a tutti, ma non fa sconti. Ci sono già troppi geni incompresi giù per le strade. Individui precari, piegati o già spezzati dal peso insopportabile dei propri sogni di rivalsa. Formidabili musicisti senza pubblico, raffinati poeti ancora inediti, giovani pittori senza una visione, senza colori, modelli anoressici e alcolizzati, lavoratori disoccupati, rivoluzionari già sconfitti, entusiasti squattrinati e perennemente abbagliati da stimoli e voglie. C’è un intero popolo di disgraziati, ammalati di speranza, una stirpe di idealisti e visionari che va avanti a vuoto, fomentata da grandi sogni e da progetti un po’ banali.
Dire che l’ambientazione sia un personaggio è diventato un po’ un cliché, ma in Mind the gap Londra lo è a tutti gli effetti. Leggendo di Ida, ho avuto la sensazione che la sua vicenda si contendesse la scena con Londra, quasi chiedendo di volta in volta il permesso di muoversi. Come è stato ambientare una storia in un posto così pieno di storie, un luogo al tempo stesso così accogliente e respingente?
Che Londra dovesse essere un personaggio era la mia idea fin dal principio. Io, poi, sono un po’ fissata con l’ambientazione, anche quando leggo altri romanzi. Se leggo un romanzo ambientato a New York, percepisco dalle pagine se l’autore sia stato davvero a New York, è una cosa che si sente, e se capisco che non c’è stato mi dà tantissimo fastidio. Ogni scrittore parte da dove vuole, io parto dai luoghi. Ero partita da Londra e Ida è interconnessa con la città in tanti modi. Londra la attira, la respinge, le dà forza, la butta a terra. Era importantissimo che la città fosse reale e non da cartolina, o turistica. Spero di esserci riuscita.
A me la Londra di Ida è sembrata abbastanza local. Tra l’altro città come Londra, New York o Roma sono parecchio inflazionate a livello narrativo, quindi immagino che da un punto di vista tecnico sia stato impegnativo costruire una Londra personale della tua protagonista. Avendo abitato lì, credo tu abbia attinto anche dalla tua esperienza. Come hai lavorato, in questo senso? Hai scritto di Londra mentre eri lì, ci sei tornata, hai utilizzato mappe, appunti?
Ho vissuto a Londra due anni e ci sono stata tante volte ancora prima di scrivere il romanzo, quindi sicuramente ho attinto dalla mia esperienza. Non ho iniziato a scrivere quando ero ancora lì, ma dopo essere tornata. Il ricordo era molto vivo e riuscivo a parlare bene dei luoghi, ma non volevo che ci fossero errori o incongruenze, perciò avevo Google Maps sempre aperto, insieme al mio stradario. Qualcuno mi ha detto che ci sarebbe stato il rischio di scrivere una guida turistica, ma a me interessava che fosse tutto reale. Se il mio personaggio è in un pub e poi passa sotto un ponte, non posso cambiare o inventare il nome del ponte, altrimenti la storia perde di credibilità. C’è chi magari non dà tutto questo peso all’ambientazione, ma per me era importante. Poi chiaramente non ho parlato di tutti i luoghi, ho scelto quelli dove Ida potesse essere. Perciò ci sono sia i luoghi che conoscono tutti, sia quelli più legati agli expat e agli italiani all’estero, anche perché ognuno frequenta luoghi specifici e io ho scelto quelli giusti per Ida. Ho fatto anche molte foto, ho tantissimo materiale. Mentre scrivevo da casa, spesso prendevo una foto e la tenevo davanti agli occhi per recuperare la sensazione di quando l’avevo scattata.
Chi sostiene che si possa scrivere di tutto, senza muoversi di casa, tira sempre in ballo Sàlgari.
Forse nella letteratura di genere, come le storie d’avventura di Sàlgari o nel giallo, si può scrivere anche di luoghi mai visitati. Per la narrativa contemporanea e per storie come quella di Mind the gap, invece, l’ambiente non può essere una cosa a sé. È una base della storia, quindi scegliere un’ambientazione tanto per sceglierne una secondo me non solo non aggiunge granché alla storia, ma toglie proprio qualcosa.
Oltre al materiale di cui parli, le pagine sembrano avere come riferimento anche la letteratura inglese, e non solo. C’è stata una suggestione letteraria, magari proprio londinese, che ti ha aiutato a ricreare l’atmosfera?
Oggi Londra è una cosa, però non si può non pensare alla Londra dell’Ottocento e alla sua letteratura che tutt’oggi si vede e si respira in città. In Mind the gap c’è molta musica, perciò la presenza della poesia inglese mi è sembrato un buon bilanciamento. Inoltre sia io sia Ida siamo amanti della letteratura, perciò la sua presenza credo potesse dare ancora più spessore alla città e all’idea che la protagonista stessa ha di Londra e degli inglesi.
Londra è un elemento imprescindibile di Mind the gap, ma la tua scrittura si illumina quando si sofferma sui luoghi in generale (e i luoghi stessi ne vengono illuminati). Mi è sembrato di vedere il caffè dove Ida lavora all’inizio della storia, così come il chiosco di hot-dog al parco, l’ambiente iper-illuminato di Zara, il locale dell’appuntamento con Giacomo. Lo stesso vale per paese da cui proviene la protagonista, seppur rievocato soltanto attraverso dei flash. Della scrittura dei luoghi, c’è qualcosa che ti ha dato particolare soddisfazione oppure qualcosa che per te è stato difficile recuperare e riadattare in un luogo di finzione?
Non è stato difficile, anzi, per me è stato liberatorio. Parlare di Londra e dei luoghi che anch’io amo e dove mi piace sempre tornare è stato bello, mi ha permesso di fissare sulla pagina immagini che volevo rimanessero. Anche scrivere dei luoghi “negativi” è stato bello, perché ho letto poche volte racconti e descrizioni efficaci di quelle situazioni di lavoro. Di solito l’ambiente dei camerieri, delle cucine, dei bar o dei chioschi non viene tanto raccontato. Io l’ho fatto con convinzione, felice di farlo perché volevo dare a questi ambienti dignità letteraria, essere al loro servizio. Dato che me lo chiedono sempre, dico anche qui che sì, ci sono elementi autobiografici.
Io però non te l’ho chiesto, eh.
Vero, tu no! [ride]. È chiaro che ci sono aspetti autobiografici, così come è chiaro che non ci sia tutto. Delle volte mi domando se sia più semplice rispondere che sì, il romanzo è autobiografico, oppure che non lo è, perché a seconda della risposta l’idea di chi legge il romanzo cambia.
Potresti rispondere come Svevo sulla Coscienza di Zeno: «È un’autobiografia e non la mia».
Bella risposta! Per me è poco importante dire quanto ci sia della mia esperienza. Anche io vengo da un paese, perciò quando racconto le dinamiche di un paese prendo quelle del mio, ma i paesi si assomigliano tutti. Non volevo che il romanzo diventasse un mio diario o il racconto dei fatti miei. Volevo scrivere la storia di una ragazza che parte, va all’estero e tenta di sopravvivere. Poteva essere Londra così come un’altra città, ma io sono stata a Londra e ho scelto di ambientare la storia qui.
Prima accennavi al fatto che, in città così grandi, ognuno con la propria esperienza disegna la propria mappa della città. La Londra di Ida a me è sembrata quasi in verticale, perché la sua esperienza somiglia a una scalata. Oppure mi ha ricordato una giostra che non smette di muoversi e davanti alla quale si può scegliere solo di salire o scendere. Grazie alla Londra di Ida, ci affacciamo anche sulla Londra e sulla vita della sua coinquilina Marta, o su quella di Giacomo e delle varie colleghe che Ida incontra. Tra quante Londra hai dovuto scegliere per il tuo racconto?
All’inizio la mia idea, infatti, era di scrivere tante storie su ogni personaggio, con l’obiettivo di descrivere Londra, poi però ho scelto di scrivere un romanzo. In una città così, ognuno ha un suo mondo in cui tenta di sopravvivere come può. Ida vive Londra in modo totale, le basta uscire e passeggiare da sola, poi c’è chi vive solo i party del sabato notte e durante il resto della settimana non fa altro. Ida, Marta e Giacomo hanno in comune l’amore per la città e la condizione di dover sopravvivere con pochi soldi.
Infatti, appoggiandoci a una semplificazione, potremmo dire che Mind the gap sia il romanzo degli expat. Racconta un’esperienza molto specifica, sia dal punto di vista generazionale sia temporale. Prima di Brexit, Londra è stata per almeno dieci anni la destinazione per eccellenza, si aveva la sensazione che, non trasferendoti a Londra, stessi un po’ perdendo tempo. Hai avuto riscontri da parte di chi ha vissuto nella stessa condizione di Ida e degli altri personaggi del romanzo? L’ambientazione su cui hai lavorato così profondamente è stata riconosciuta?
Per quanto riguarda il luogo, sì. Mi hanno scritto soprattutto molte ragazze. Ida invece ha scatenato reazione opposte. Alcune lettrici si sono innamorate di lei, ad altre è stata proprio sulle scatole.
Secondo me è una cosa positiva. Meglio un personaggio che sta antipatico piuttosto di uno che non ci fa nessun effetto, no?
Infatti a me va benissimo, sono contenta che sia così. Non mi interessano gli aspetti eroici dei personaggi, voglio vedere il chiaroscuro. Ida si lamenta e si abbatte, ma così deve essere, altrimenti sarebbe finta. Ida e Marta sono due sfaccettature diverse del resistere, sono complementari. Molto di queste esperienze dipende anche dalla situazione di base da cui parti. Ida parte senza soldi e senza famiglia, il che fa tutta la differenza. Ci sono tante tipologie di expat. Le persone che ho incontrato all’estero che erano “coperte” hanno fatto tutta un’altra esperienza, si potevano permettere corsi, stage non pagati. Qualche anno fa, per esempio, ho letto Città irreale di Cristina Marconi, la storia di una ragazza romana che parte e va a Londra per lavorare in ufficio e che frequenta l’ambiente della city, che è una delle fette. Io ho vissuto un’altra fetta, volevo raccontare la Londra dei poveracci.
E l’idea di aggiungere la tua fetta al panorama di “fette narrative” raccontate prima della tua ti ha messo pressione? Hai sentito la responsabilità e magari l’eccitazione di dover aggiungere qualcosa?
Pressione no, perché se dovessimo ragionare in questi termini noi scrittori non scriveremmo più [ride]. La mia Londra spero sia diversa dalle altre, perché è vista coi miei occhi, ma non entra in competizione con quella descritta da altri scrittori. Volevo scrivere di Londra e così ho fatto, non ho proprio pensato a chi lo avesse fatto prima di me. Spesso nelle scuole di scrittura si dice che bisogna trovare una trama originale, ma io non sono una fan di quel tipo di letteratura. Per me in un libro può anche non succedere niente, l’importante è il punto di vista. La differenza è o nella storia o in come la scrivi. Io avevo una storia, non so se l’ho scritta bene o male ma ce l’avevo, in più avevo l’urgenza di raccontarla. Non sono mai stata d’accordo con chi si oppone alla scrittura autobiografica. Va bene non limitarsi alla scrittura ombelicale, ma tutti i miei scrittori preferiti hanno scritto della loro vita, quindi come lo spieghiamo? Capisco che non tutte le vite destino interesse, ma dipende da come vengono raccontate.
Che poi per anni si è detto che la strada migliore fosse l’auto-fiction.
Sono le mode. Ricordo che quando proponevo Mind the gap mi rispondevano che in quel momento bisognava parlare dell’Italia e non dell’estero. Dopo Elena Ferrante sembrava che tutti dovessero parlare del paese. Io non sono d’accordo. Una storia deve essere raccontata bene e basta, a prescindere dall’argomento.
Hai detto che per scrivere parti dai luoghi. C’è un luogo che ti ha ispirato una nuova storia o che vorresti un giorno raccontare?
Un altro luogo che mi interessa molto e di cui sto scrivendo è il paese. Primo perché sono nata in un paese e vivo in città da tanto tempo, poi perché la storia del paese è molto interessante. In tanti provano a scriverne, ma non è facile raccontare cosa significhi vivere in un paese, voler andare via, voler tornare. Tra tutti i libri sui paesi che ho letto, La luna e i falò di Pavese è il migliore. Quindi la nuova sfida che mi sto ponendo è questa e mi piacerebbe riuscire ad affrontarla. Vediamo.
Per concludere, non ti chiederò se hai mai pensato a un seguito di Mind the gap.
Che è l’altra domanda che mi fanno sempre, insieme a quella sugli elementi autobiografici [ride].
Mi domandavo, piuttosto, se ogni tanto pensi a Ida e a ciò che le è successo dopo che hai finito di raccontare la sua storia.
Il finale è aperto, ma per me la storia è conclusa, la sua parabola è finita. È chiaro che potrei andare avanti fin che vuoi, come si fa con le puntate delle serie tv, ma sarebbe ripetitivo. Ho già ricevuto qualche critica proprio su questo fatto, perché nella storia Ida cambia lavoro, lo perde, lo ritrova, lo riperde, ma è proprio quello che volevo raccontare, l’alternarsi di speranza e delusione. Mi rendo conto che a lungo andare potrebbe essere noioso, proprio come quelle serie tv che alla seconda stagione pensi: continua sempre con le stesse cose, basta! Non mi piacerebbe correre quel rischio. Ida e gli altri personaggi stanno bene dove li ho lasciati.
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Luisa Multinu, classe 1983, nasce a Recoaro Terme, in provincia di Vicenza. Vive e studia tra Padova e Venezia, conseguendo la laurea in Filologia e Letteratura Moderna. Viaggia per l’Europa e lavora in Francia, Irlanda e Inghilterra, fermandosi soprattutto a Londra, città al centro di questo romanzo. Attualmente vive a Milano dove insegna materie letterarie nelle scuole superiori.